Davvero non ricordo quando ho iniziato a disegnare. Forse poco dopo aver imparato a stringere un oggetto nella mano, e si trattava di una matita.
Mi si rimprovera tutt'oggi di quando affrescai con un pennarello ad alcol viola il pavimento in marmo di bagno e corridoio, e i muri fin dove potevo arrivare gattonando. Mia madre, illusa che stessi dormendo, uscì dalla cucina e trovò casa e bambina viola. I muri furono imbiancati e il pavimento pulito, anche se in alcuni punti qualche traccia viola restò, a imperitura memoria. Lei continua a rinfacciarmelo e io continuo a chiederle perché avesse lasciato alla mia portata un pennarello ad alcol; prevenire è meglio che imbiancare!
Giocavo col disegno seduta a terra tra album e pennarelli, sottofondo di fiabe sonore o musica classica e, ogni tanto, la Olivetti dei miei, per scrivere storie.
Invece di fare i compiti a casa, disegnavo. Invece di prendere appunti in classe, disegnavo. I problemi di matematica erano sbagliati, ma avevano delle cornicette curatissime. E al liceo tentai - invano - di far pace con la chimica, decorando la tavola degli elementi con le fatine di Fantasia.
Per non parlare dei trucchi, che da bambina chiamavo "colori per il viso" e che cercavo sempre di arraffare. Lo smalto iridescente era una concessione da festeggiare, e in mancanza di meglio mi tingevo le unghie con l'evidenziatore rosa.
Crescendo, avrei voluto approfondire il discorso alla scuola per estetiste ma finii invece al liceo classico, dove continuai a nascondere disegni e pennarelli sotto i libri di latino e greco che, ahimè, non imparai mai a tradurre.
Disegnare era così spontaneo da essere scontato. In vista della maturità mi arrovellai, chiedendomi cosa potessi fare dopo; non avevo proprio considerato un corso di illustrazione. In quei gloriosi quattro anni all'Istituto Europeo di Design, altre due scintille accesero il mio amore d'infanzia: la teoria del colore e l'acquerello.
E poi? Come in molte relazioni, stava montando una crisi che avrebbe portato a un rapporto di ripiego.
Fresca di diploma, partecipai a qualunque concorso di illustrazione, mi proposi a qualsiasi casa editrice e iniziai a collezionare un rifiuto dopo l'altro, quando ricevevo una risposta. Le più gentili tra queste le diedero un editore, che mi restituì il portfolio perché non buttassi i soldi delle fotocopie, e una giovane art director: «Il tuo stile non va bene per l'Italia, perché non provi in Inghilterra o in Nord Europa?».
Da italica mammona, restai a Roma e trovai un altro lavoro, stimolante e gratificante: sceneggiatrice di fumetti. E un’altra università. E un secondo lavoro, per arrotondare. E della necessaria vita sociale. Il disegno era sempre più in secondo piano: un concorso ogni tanto, qualche commissione e pubblicazione, ma sempre meno tempo da dedicare a matite e pennelli. Il che si traduceva in mano poco allenata, ansia da prestazione, disagio e invidia verso chi disegnava di più.
Un giorno mi fu chiesto di visualizzare una situazione felice, e mi venne in mente un fiore bianco su sfondo verde. Mi chiesi da dove arrivasse quell'immagine e capii che era un dettaglio di Baccadoro, uno degli acquerelli a cui sono più affezionata. Piansi dalla nostalgia. Ecco cosa mi rendeva felice, e io non mi davo più il tempo di farlo.
Passò qualche altro anno, io chiusi con i secondi lavori, finii l'università... e, ora lo capisco, in modo molto opportuno anche se doloroso, mi ritrovai in pieno blocco creativo (ne avevo accennato qui e parlato su C+B). Non riuscivo più a scrivere, e quindi a lavorare bene; mi diedi tempo, ma le cose peggioravano. Dovevo allontanarmi un po' dalla scrittura.
Sarebbe bello, a questo punto, poter dire di essermi rituffata con entusiasmo su colori e pennelli... In realtà, avevo dimenticato cosa si prova a disegnare solo per se stessi e non mi veniva più spontaneo farlo. Per quanto riguarda la teoria del colore, avevo anni di arretrati da recuperare. È stato difficile ricominciare e lo è ancora, per certi versi. Devo riconquistare un amore trascurato.
Disegni e colori mi stanno già perdonando l'assenza; forse è il momento di perdonare me stessa per essermi scoraggiata, anni fa, e aver preso un'altra strada. Deviando, ho approfondito diverse passioni, conosciuto persone importanti per la mia vita e imparato, tra le altre cose, che nessun amore va dato per scontato.
Ho letto con commozione. Brava Simona. Vai avanti così: il sentiero è quello giusto.
RispondiEliminaLongo è lo cammino, ma grande è la meta! <3
EliminaSei un bellissimo esempio di passione infinita: sono contenta che tu abbia (ri)trovato la tua strada, quella in cui puoi esprimerti in tutta libertà! :)
RispondiEliminaGrazie mille, Liria!
EliminaNon è ancora una strada in scioltezza, ma del resto ho un carattere tormentato, quindi è proprio la mia. ;)
A parte il tuffo nell'infanzia nel leggere di una bambina che disegna e scrive tutto il tempo con le fiabe sonore in sottofondo, anche io ero così, mi colpisce sempre come serva sempre tempo per tornare a se stessi, a volte lunghi anni di gestazione, ma credo ne valga la pena.
RispondiEliminaHai proprio ragione, Rosangela.
EliminaE sai una cosa? Mesi fa ho ritrovato su YouTube le Fiabe Sonore e i Racconta Storie, e piano piano me le sono riascoltate tutte. :)
Le vado a cercare anche io :)
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